Il volto di Enrichetta Beltrame Quattrocchi, com’è rimasto nel ricordo di chi l’ha avvicinata fino all’ultimo tempo della sua vita, era soffuso di un’amabile espressione, di un sorriso che lasciava trasparire il suo cuore sereno e sempre aperto all’accoglienza di tutti, no sempre intento al dono di sé. E proprio questa la più bella e preziosa eredità che le hanno lasciato i suoi beati genitori. Enrichetta rimase nubile si può dire per vocazione e tutta al servizio dei familiari e di chiunque avesse bi- sogno di aiuto. Con il suo grande cure materno andava ben oltre l’ambito della famiglia naturale: era. infatti, partecipe della maternità spirituale della Chiesa. Viveva come in una grande fa- miglia. Era sua consuetudine. come già dei suoi genitori, tenere aperta la sua casa a tutti di conseguenza, si faceva carico specialmente delle molteplici situazioni di prova o di disagio che le che le persone le confidavano per avere da lei un consiglio, un conforto, soprattutto il sostegno della preghiera anche prolungato nel tempo. Enrichetta era e rimane per sempre un dono di Dio per tutti. Ella che si e sempre dedicata agli altri rimane an cora compagna di viaggio nel cammino. per tutti non facile della vita La sorgente di questo suo ammirevole stile di vita è da ricercarsi nella sua fede profonda e nella sua conseguente carità. Tutto ella riferiva a Dio e in particolare al Cristo che è «passato sulla terra tacendo a tutti del bene» Fare memoria di Enrichetta è davvero come rileggere una pagina del Van gelo in essa si trova la confortante pro messa che Gesù ci ha lasciato “Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine dei secoli. Egli è presente e operante nella sua Chiesa. nei suoi santi La cara Enrichetta continua dal cielo la sua missione di ascoltare e di accogliere e ascoltare ancora noi pellegrini con l’animo proteso alla beata meta del paradiso.

 

La spiritualità della “piccolezza” in Enrichetta

Non ho conosciuto personalmente Enrichetta quando, dal  15  al  20  ottobre del 1980, ha sostato nel nostro monastero  per  alcuni  giorni  di  preghiera. Infatti, la Regola di San Benedetto prevede che siano solo i  fratelli  incaricati dell’ospitalità  ad  accogliere  chi  arriva, e  ad  essi  vada  incontro  l’abate  stesso offrendogli le più delicate attenzioni di carità. Del resto, a quel tempo ero giovane novizia, soprattutto  concentrata ad imparare come muovere i primi passi nella vita monastica, e non mi guardavo affatto d’attorno, tanto meno per vede- re chi andava e veniva.

Tuttavia, il passaggio di Enrichetta tra noi non è stato vano neppure per me, grazie alla misteriosa circolazione della grazia e dei doni di Dio, e alla comunione dei santi del Cielo e della terra. Ed è così che mi sembra di conoscere anch’io Enrichetta, anzi di averla sempre conosciuta!

Mi ha toccata un aspetto particolare della sua fisionomia interiore, che forse rimane un po’ nascosto rispetto ad altri più evidenti: è la sua piccolezza. È la piccolezza che fa gran- de l’uomo, perché questa è la logica di Dio e delle sue scelte: essa è il filo con- duttore  che  percorre  tutta  la  Storia della Salvezza, fino all’incarnazione di Cristo, fattosi piccolo e debole tra noi e per noi.

La  logica  di Dio,  della  piccolezza, entra  fin  dall’inizio  in  Enrichetta,  e cresce durante tutta la sua vita fino a raggiungere l’apice negli anni del de- clino e del tramonto.

Enrichetta è la più piccola dei suoi fratellini, attesa dalla mamma e data alla luce  in  una  situazione  di  rischio per entrambi: dunque, non solo il mi- stero della piccolezza, ma anche quello  della  debolezza  entra  ben  presto nella sua stessa carne, a testimoniare che proprio in una bimba, ancora ignara di tutto, si manifesta già appieno il mistero della potenza di Dio.

Si possono ridurre a tre le parole di Gesù che prevalentemente sintetizzano il percorso della vita di Enrichetta e il suo cammino interiore. La prima: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt. 25,40).

Occorre essere semplici, puri e poveri nel cuore, “picco- li” in una parola, per accorgersi, innanzitutto, che i poveri e i piccoli stanno o passano proprio accanto a noi. Enrichetta avrebbe potuto condurre una vita agiata e comoda; ha invece scelto di mettersi al servizio degli altri, offrendo la sua totale disponibilità ad occuparsi dei poveri, dei giovani, degli ammalati, dei bisognosi in ogni senso. In casa, accanto soprattutto alla mamma, Enrichetta aveva assimilato una liturgia dei gesti che celebrava con solennità mentre materialmente si prodigava per gli altri: gesti di delicate attenzioni di carità che emanavano il buon profumo di Cristo; gesto silenzioso, ad esempio, di porre sulla mensa una rosa rossa per rende- re più appetibile al povero la vivanda postagli dinanzi. Gesti semplicissimi, di vero amore, che hanno reso il Signore vicino e conquistato a Lui i cuori dei fratelli.

Ancora di più: Enrichetta ha scelto di consacrarsi al servizio della sua stessa famiglia, la famiglia dei Beati coniugi Luigi e Maria. Non sembra questa una scelta “minima”, di poco o addirittura nessun conto? Eppure proprio nell’ambito dell’ordinario quadro familiare, Enrichetta ha vissuto e praticato silenziosamente, umilmente, tutte le virtù cristiane germogliate e sbocciate dalla radice nascosta della piccolezza, del “nulla” che Dio ha scelto e che amorevolmente ha custodito nella Sua Santa Mano.

“Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, per- ché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt. 11,25) è la seconda parola di Gesù che si può assimilare a Enrichetta e alla sua famiglia. La loro casa era sempre aperta all’ospitalità: la frequentavano le grandi personalità del mondo della cultura, della politica, della spiritualità e delle scienze umane; a ragione, essa avrebbe potuto diventare un centro culturale nella Roma di quegli anni, eppure non è avvenuto così. Casa Beltrame era invece una piccola Betania, chiesa domestica, focolare spirituale in cui non si cercava il sapere umano, ma la sapienza divina che illumina lo stesso sapere umano. Era una scuola del cuore, che attingeva la sua linfa vitale dal Sacro Cuore di Gesù, venerato da tutta la famiglia. Enrichetta, dunque, nella cornice dell’ordinarietà, ha vissuto nascostamente tutte le virtù dell’ascesi cristiana e, si potrebbe dire, monastica – la preghiera, la comunione con Dio, la carità verso i fratelli, la pratica dell’ospitalità, la fatica del servizio – proprio come suo fratello Padre Paolino e sua sorella Madre Maria Cecilia le stavano vivendo nel chiostro diventando figure eminenti della spiritualità monastica benedettina.  Nell’ultima fase della sua lunga  vita,  Enrichetta raccoglie il frutto maturo di un’altra parola di Gesù: “In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt. 18,3). Il suo percorso di vita di comunione con Dio è stato un graduale raggiungimento del dono dell’infanzia spirituale. Ella è arrivata alla sua veneranda età con la bellezza interiore di una fanciulla, la freschezza di chi non ha mai cercato cose grandi, superiori alle sue forze (cfr. salmo 130); di chi con semplicità ha dato tutto a Dio e ai fratelli e si è interiormente arricchito di quanto ha donato.

Anche i tratti del suo volto rivelano la bellezza della sua infanzia spirituale, come appare in una fotografia degli ultimi anni della sua vita: ha gli occhi vispi e un sorriso quasi…birichino, lo sguardo sereno di chi è tranquillo come un bimbo in braccio a sua madre, e si sente al sicuro nelle mani di Dio, anche nel tempo del declino e della malattia; uno sguardo, insieme, pieno di materna tenerezza che incoraggia anche noi a camminare ponendo i nostri passi insicuri nelle grandi orme di Cristo, mite e umile di cuore, che ci ha aperto la strada, anzi si è fatto strada verso la pienezza della vita che mai tramonta.

 

 

La Telefonata

Enrichetta era legata a mia madre da una profondissima amicizia, e di conseguenza nutriva un affetto speciale an- che per me, i miei fratelli e tutti i figli e nipoti delle sue ami- che. Brillavamo, in un certo senso, di luce riflessa. Si ricordava anche le date dei nostri compleanni! Con piacere mi intrattenevo con lei quando telefonava a casa nostra per parlare con mia mamma, e capitava che rispondessi io.

Ma una telefonata fu diversa dalle altre…

Era un caldo pomeriggio estivo, e lo squillo del telefono mi scosse dal torpore di un sonnellino rigenerante. Risposi con voce orrendamente biascicata, quasi “cavernosa”. Era Enrichetta, che si preoccupava per quella mia voce così alterata. “Stai giù?”, mi chiedeva. “No, no, sto benissimo. Sto giù nel senso che mi trovo al Sud, al mare”, scherzavo. “Non è vero, tu stai al Nord, perché sei vicina al sole”, ribatteva lei, col suo sapido e brioso senso dell’humour, ma allo stesso tempo con ferma serietà. Per un attimo restai tramortita e mi tornò in mente, come in un flash, una storia molto particolare: una bambina, figlia di miei carissimi amici, raccontò ai suoi genitori di avermi incontrato in cielo, prima che nascesse, ed aveva aggiunto: “L’ ha voluto Dio, perché è buono e trasparente, ma M. Cristina non era trasparente…” Come mai anche Enrichetta mi vedeva in cielo, vicina al sole, che di Dio “porta significazione”?

“Sei esagerata,  Enrichetta,  sempre  troppo  buona!”, continuavo la telefonata. Ma lei insisteva: “No! Ti assi- curo! È così! Tu hai dentro di te un mondo meraviglioso: tiralo fuori, diffondilo! Il mondo ha bisogno di bellezza!”

Certo, lei, insegnante di storia dell’arte, di bellezza se ne intendeva, e soprattutto di quella che per Dostoevskij può “salvare il mondo”, perché è un tutt’uno con la bontà.  Enrichetta sentiva fortemente l’esigenza di salvare un mondo che sta perdendo tanti valori morali, e mi parlava così perché aveva molto apprezzato i miei primi libri di poesie, strettamente collegati tra loro, quello sui bambini e quello sulla meraviglia. Ma io credo che fosse lei ad avere in sé un mondo meraviglioso, perché era una persona “toccata” in modo speciale dalla Luce della Grazia di Dio. Sono convinta, infatti, che le persone come lei, non solo siano particolarmente buone,  ma  abbiano  anche  una  certa  predisposizione  a trovare il bello ed il buono negli altri. Chi, invece, vive nel buio, e nella sua “tranquillità ingannatrice” (come l’ha de- finita Papa Francesco), non solo ha una forte propensione alla cattiveria, ma tende anche a vederla negli altri, senza rendersi conto che non è altro che un’ emanazione della propria. E così, chi la pensa in questo modo, vive avviluppato da un pessimismo ed una negatività che non lasciano scampo. Enrichetta aveva la pacata serenità di chi non sa proprio cosa sia il pessimismo, perché era troppo vicina a Dio. Quella telefonata me lo fece capire inequivocabilmente Era sempre un arricchimento, per me, scambiare con lei due parole, in conversazioni che potevano riguardare qualsiasi argomento. Ma l’affetto sincero che anch’io nu- trivo per lei, era sempre legato ad un certo sentimento di soggezione, perché era la “figlia dei beati” ed aveva tanti anni più di me. Fu lei ad abbattere questo “muro”, quando mi chiese di darle del tu. Era successo che in quel periodo avesse perso uno dei suoi fratelli. Io lessi, tra le righe di quella ri- chiesta, un bisogno speciale di amore e di coccole, come lo possono avere i bambini. Sì, da quel giorno, per me, era tornata bambina.

L’ arte – è risaputo – è “figlia del cielo”. Il pittore El Greco dipingeva quasi al buio. Quando qualcuno gli chiese come mai lo facesse, lui rispose: “Sapeste quanta luce ho dentro!”.  Ma se i bambini sono gli artisti più veri, e non a caso i veri Signori del Regno dei Cieli, Enrichetta “tornata bambina” non faceva altro che darmi la conferma di quello che avevo sempre pensato. Tutto si ricomponeva in un cerchio dorato e sublime.