Non ho conosciuto personalmente Enrichetta quando, dal 15 al 20 ottobre del 1980, ha sostato nel nostro monastero per alcuni giorni di preghiera. Infatti, la Regola di San Benedetto prevede che siano solo i fratelli incaricati dell’ospitalità ad accogliere chi arriva, e ad essi vada incontro l’abate stesso offrendogli le più delicate attenzioni di carità. Del resto, a quel tempo ero giovane novizia, soprattutto concentrata ad imparare come muovere i primi passi nella vita monastica, e non mi guardavo affatto d’attorno, tanto meno per vedere chi andava e veniva. Tuttavia, il passaggio di Enrichetta tra noi non è stato vano neppure per me, grazie alla misteriosa circolazione della grazia e dei doni di Dio, e alla comunione dei santi del Cielo e della terra. Ed è così che mi sembra di conoscere anch’io Enrichetta, anzi di averla sempre conosciuta! Mi ha toccata un aspetto particolare della sua fisionomia interiore, che forse rimane un po’ nascosto rispetto ad altri più evidenti: è la sua piccolezza. È la piccolezza che fa grande l’uomo, perché questa è la logica di Dio e delle sue scelte: essa è il filo conduttore che percorre tutta la Storia della Salvezza, fino all’incarnazione di Cristo, fattosi piccolo e debole tra noi e per noi. La logica di Dio, della piccolezza, entra fin dall’inizio in Enrichetta, e cresce durante tutta la sua vita fino a raggiungere l’apice negli anni del declino e del tramonto. Enrichetta è la più piccola dei suoi fratellini, attesa dalla mamma e data alla luce in una situazione di rischio per entrambi: dunque, non solo il mistero della piccolezza, ma anche quello della debolezza entra ben presto nella sua stessa carne, a testimoniare che proprio in una bimba, ancora ignara di tutto, si manifesta già appieno il mistero della potenza di Dio. Si possono ridurre a tre le parole di Gesù che prevalentemente sintetizzano il percorso della vita di Enrichetta e il suo cammino interiore. La prima: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt. 25,40). Occorre essere semplici, puri e poveri nel cuore, “piccoli” in una parola, per accorgersi, innanzitutto, che i poveri e i piccoli stanno o passano proprio accanto a noi. Enrichetta avrebbe potuto condurre una vita agiata e comoda; ha invece scelto di mettersi al servizio degli altri, offrendo la sua totale disponibilità ad occuparsi dei poveri, dei giovani, degli ammalati, dei bisognosi in ogni senso. In casa, accanto soprattutto alla mamma, Enrichetta aveva assimilato una liturgia dei gesti che celebrava con solennità mentre materialmente si prodigava per gli altri: gesti di delicate attenzioni di carità che emanavano il buon profumo di Cristo; gesto silenzioso, ad esempio, di porre sulla mensa una rosa rossa per rendere più appetibile al povero la vivanda postagli dinanzi. Gesti semplicissimi, di vero amore, che hanno reso il Signore vicino e conquistato a Lui i cuori dei fratelli. Ancora di più: Enrichetta ha scelto di consacrarsi al servizio della sua stessa famiglia, la famiglia dei Beati coniugi Luigi e Maria. Non sembra questa una scelta “minima”, di poco o addirittura nessun conto? Eppure proprio nell’ambito dell’ordinario quadro familiare, Enrichetta ha vissuto e praticato silenziosamente, umilmente, tutte le virtù cristiane germogliate e sbocciate dalla radice nascosta della piccolezza, del “nulla” che Dio ha scelto e che amorevolmente ha custodito nella Sua Santa Mano. “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”(Mt. 11,25) è la seconda parola di Gesù che si può assimilare a Enrichetta e alla sua famiglia. La loro casa era sempre aperta all’ospitalità: la frequentavano le grandi personalità del mondo della cultura, della politica, della spiritualità e delle scienze umane; a ragione, essa avrebbe potuto diventare un centro culturale nella Roma di quegli anni, eppure non è avvenuto così. Casa Beltrame era invece una piccola Betania, chiesa domestica, focolare spirituale in cui non si cercava il sapere umano, ma la sapienza divina che illumina lo stesso sapere umano. Era una scuola del cuore, che attingeva la sua linfa vitale dal Sacro Cuore di Gesù, venerato da tutta la famiglia. Enrichetta, dunque, nella cornice dell’ ordinarietà ha vissuto nascostamente tutte le virtù dell’ascesi cristiana e, si potrebbe dire, monastica – la preghiera, la comunione con Dio, la carità verso i fratelli, la pratica dell’ospitalità, la fatica del servizio – proprio come suo fratello Padre Paolino e sua sorella Madre Maria Cecilia le stavano vivendo nel chiostro diventando figure eminenti della spiritualità monastica benedettina. Nell’ultima fase della sua lunga vita, Enrichetta raccoglie il frutto maturo di un’altra parola di Gesù: “In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt. 18,3). Il suo percorso di vita di comunione con Dio è stato un graduale raggiungimento del dono dell’infanzia spirituale. Ella è arrivata alla sua veneranda età con la bellezza interiore di una fanciulla, la freschezza di chi non ha mai cercato cose grandi, superiori alle sue forze (cfr. salmo 130); di chi con semplicità ha dato tutto a Dio e ai fratelli e si è interiormente arricchito di quanto ha donato. Anche i tratti del suo volto rivelano la bellezza della sua infanzia spirituale, come appare in una fotografia degli ultimi anni della sua vita: ha gli occhi vispi e un sorriso quasi…birichino, lo sguardo sereno di chi è tranquillo come un bimbo in braccio a sua madre, e si sente al sicuro nelle mani di Dio, anche nel tempo del declino e della malattia; uno sguardo, insieme, pieno di materna tenerezza che incoraggia anche noi a camminare ponendo i nostri passi insicuri nelle grandi orme di Cristo, mite e umile di cuore, che ci ha aperto la strada, anzi si è fatto strada verso la pienezza della vita che mai tramonta.
Volantino 12